In questo lungo articolo si affronta il tema della c.d. recezione nel ius civile dei giudizi di buona fede, partendo dal presupposto, accolto dalla maggior parte degli studiosi, che in origine essi fossero invece di natura pretoria. Il metodo adottato è quello, caro a Filippo Gallo, diretto ad individuare la fonte dell’emersione di istituti nuovi in seno all’ordinamento civilistico: ossia di istituti che, dal punto di vista del diritto sostanziale, per il solo fatto che a un certo punto vengano tutelati con azioni da ritenersi in ius conceptae, passano innegabilmente da inesistenza ad esistenza. Ora però, non potendosi completamente abdicare dall’esigenza logica, e storica, che necessariamente vuole il ius come un prius rispetto allo strumento processuale che gli conferisce tutela, si passano in rassegna le fonti di produzione comprese negli elenchi contenuti nei testi non solo dei giuristi romani (Gaio, Papiniano), ma anche dei retori (auctor ad Herennium, Cicerone), i quali - scrivendo proprio nel periodo a cui viene fatto per lo più risalire il processo di recezione - annoverano tra le fonti fatti come il par ed il pactum (prassi pattizia) o il iudicatum, destinati a rivelarsi, dal nostro punto di vista, come ingredienti essenziali di una trama consuetudinaria rilevante dal ius civile. Le scarsissime testimonianze esistenti in materia di recezione (tra le quali bisogna ricordare soprattutto Ulp. D. 27.4.1pr e Ulp. D. 21.1.31.20, qui sottoposte a compiuta esegesi) non consentono di attribuire rilevanza decisiva, ai fini della receptio stessa, a qualcuno soltanto dei fattori astrattamente idonei a determinarla, bensì, forse, a suggerire che la consuetudine, in combinazione con più d’uno di quegli stessi fattori, un ruolo molto probabilmente l’ebbe. Sembra infatti plausibile affermare che ci troviamo qui di fronte ad istituti che fanno ufficialmente ingresso nell’ordinamento solo quando il “fascio” delle discipline in cui essi consistono abbia raggiunto sufficiente effettività (che non è mai, come oggi, un posterius rispetto alla formale emanazione di una normativa specifica), e tutto ciò forse si produsse, nel caso dei iudicia bonae fidei, per la necessità di soddisfare, in modo più completo ed “elastico”, insopprimibili esigenze poste dalla prassi. Ma - questo è il punto - non sono mere prassi “spontanee” quelle in cui si possano identificare i processi consuetudinari, ma qualcosa di assai più complesso, cui danno impulso, coagendo tra di loro, in rapporto di continua reciproca osmosi, un gran numero di fattori, in parte riconducibili alla coesistenza, nel sistema giuridico romano, di una pluralità di ordinamenti. Sono processi di cui si possono rapidamente ricapitolare le tappe: a monte, la diffusione di usi commerciali internazionali o di usi interni fondati su rapporti di reciproca forte solidarietà, entrambi momentaneamente privi di valore giuridico; l’intervento di organi giurisdizionali che dell’importanza di quelle pratiche prendono atto, al fine di garantire la pace sociale all’interno di una comunità che pone esigenze sempre più articolate e complesse; l’avvio di un processo consuetudinario “ufficiale”, che consta di un flusso di attività negoziali e di decisioni giudiziali rese coerenti e sapientemente indirizzate, in modo univoco, da una scienza giuridica assai più sensibile alla risoluzione dei problemi pratici, a ciò che insomma ragioni di utilità sociale richiedono, che non ad esigenze di inquadramento teorico; l’incidenza della lex Iulia iudiciorum privatorum, che però integra direttamente, nell’ordinamento, soltanto gli effetti della macchina processuale dal cui funzionamento dipende, da sempre, la tutela di quelle pratiche; il definitivo consolidamento della disciplina ormai formatasi sulle stesse, donde il suo assorbimento nell’ordinamento sostanziale, certificato come tale, se non di fatto addirittura compiuto, dal magistrato giusdicente nell’esercizio delle sue competenze.
Osservazioni in merito alla recezione nel ‘ius civile' dei ‘iudicia bonae fidei'
FRANCHINI L
2011-01-01
Abstract
In questo lungo articolo si affronta il tema della c.d. recezione nel ius civile dei giudizi di buona fede, partendo dal presupposto, accolto dalla maggior parte degli studiosi, che in origine essi fossero invece di natura pretoria. Il metodo adottato è quello, caro a Filippo Gallo, diretto ad individuare la fonte dell’emersione di istituti nuovi in seno all’ordinamento civilistico: ossia di istituti che, dal punto di vista del diritto sostanziale, per il solo fatto che a un certo punto vengano tutelati con azioni da ritenersi in ius conceptae, passano innegabilmente da inesistenza ad esistenza. Ora però, non potendosi completamente abdicare dall’esigenza logica, e storica, che necessariamente vuole il ius come un prius rispetto allo strumento processuale che gli conferisce tutela, si passano in rassegna le fonti di produzione comprese negli elenchi contenuti nei testi non solo dei giuristi romani (Gaio, Papiniano), ma anche dei retori (auctor ad Herennium, Cicerone), i quali - scrivendo proprio nel periodo a cui viene fatto per lo più risalire il processo di recezione - annoverano tra le fonti fatti come il par ed il pactum (prassi pattizia) o il iudicatum, destinati a rivelarsi, dal nostro punto di vista, come ingredienti essenziali di una trama consuetudinaria rilevante dal ius civile. Le scarsissime testimonianze esistenti in materia di recezione (tra le quali bisogna ricordare soprattutto Ulp. D. 27.4.1pr e Ulp. D. 21.1.31.20, qui sottoposte a compiuta esegesi) non consentono di attribuire rilevanza decisiva, ai fini della receptio stessa, a qualcuno soltanto dei fattori astrattamente idonei a determinarla, bensì, forse, a suggerire che la consuetudine, in combinazione con più d’uno di quegli stessi fattori, un ruolo molto probabilmente l’ebbe. Sembra infatti plausibile affermare che ci troviamo qui di fronte ad istituti che fanno ufficialmente ingresso nell’ordinamento solo quando il “fascio” delle discipline in cui essi consistono abbia raggiunto sufficiente effettività (che non è mai, come oggi, un posterius rispetto alla formale emanazione di una normativa specifica), e tutto ciò forse si produsse, nel caso dei iudicia bonae fidei, per la necessità di soddisfare, in modo più completo ed “elastico”, insopprimibili esigenze poste dalla prassi. Ma - questo è il punto - non sono mere prassi “spontanee” quelle in cui si possano identificare i processi consuetudinari, ma qualcosa di assai più complesso, cui danno impulso, coagendo tra di loro, in rapporto di continua reciproca osmosi, un gran numero di fattori, in parte riconducibili alla coesistenza, nel sistema giuridico romano, di una pluralità di ordinamenti. Sono processi di cui si possono rapidamente ricapitolare le tappe: a monte, la diffusione di usi commerciali internazionali o di usi interni fondati su rapporti di reciproca forte solidarietà, entrambi momentaneamente privi di valore giuridico; l’intervento di organi giurisdizionali che dell’importanza di quelle pratiche prendono atto, al fine di garantire la pace sociale all’interno di una comunità che pone esigenze sempre più articolate e complesse; l’avvio di un processo consuetudinario “ufficiale”, che consta di un flusso di attività negoziali e di decisioni giudiziali rese coerenti e sapientemente indirizzate, in modo univoco, da una scienza giuridica assai più sensibile alla risoluzione dei problemi pratici, a ciò che insomma ragioni di utilità sociale richiedono, che non ad esigenze di inquadramento teorico; l’incidenza della lex Iulia iudiciorum privatorum, che però integra direttamente, nell’ordinamento, soltanto gli effetti della macchina processuale dal cui funzionamento dipende, da sempre, la tutela di quelle pratiche; il definitivo consolidamento della disciplina ormai formatasi sulle stesse, donde il suo assorbimento nell’ordinamento sostanziale, certificato come tale, se non di fatto addirittura compiuto, dal magistrato giusdicente nell’esercizio delle sue competenze.File | Dimensione | Formato | |
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